Enormi cartelloni elettorali posizionati con largo anticipo nei punti strategici della città da candidati particolarmente ricchi. Furgoncini, auto e scooter carichi di manifesti e colla in perpetuo moto notturno. Santini sulle auto, nelle cassette della posta, nella spazzatura, abbandonati per terra.
Taranto e i suoi abitanti viaggiano spediti incontro alle prossime elezioni amministrative. Nel corso del 2022, probabilmente entro giugno, si rinnoverà il consiglio comunale e sarà eletto il/la prossimo/a sindaco/a. Nonostante la data non sia stata ancora individuata, da alcuni mesi – per lo meno da quando la città è commissariata – si respirano i prodromi dell’atmosfera elettorale.
È facile immaginare che con l’individuazione del giorno delle elezioni e con la definizione delle coalizioni il dibattito elettorale entrerà nel vivo fino a diventare totalizzante. Le ultime tornate sono state caratterizzate da tonalità particolarmente accese e possiamo immaginare che anche le prossime si attestino su livelli almeno simili. Due fattori operano in questa direzione: il perpetuo dibattito sul presente e futuro dell’ex-Ilva e la complessa parabola politica dell’amministrazione uscente.
Un attimo prima che lo scontro su chi governerà la città per i prossimi anni si infiammi, c’è spazio per porsi domande di carattere generale. Quali poteri sono effettivamente esercitabili da un’amministrazione comunale? Di quale potenziale trasformativo dispongono il/la sindaco/a e la sua giunta?
- La solita parabola
Le ritualità che accompagnano le elezioni – arrembanti comizi in piazza, serrati confronti televisivi, stanchi rappresentanti di lista che annotano pazientemente le preferenze – e la media dei programmi e dei discorsi elettorali sembrano fotografare un antico mondo immobile, quasi sempre uguale a se stesso. Testimonia in tal senso il celebre reportage di Tommaso Fiore ‘’Taranto non vuole morire’’, il quale nel 1956 scriveva:
«– Taranto è la città dei grossi problemi insoluti – : così il direttore di un giornale del luogo. Ma allorché ci apprestiamo ad avviare una conversazione su questi problemi, eccoti arrivare un professore universitario di un paese vicino, e si comincia allora il massacro degli uomini pubblici: ognuno mette fuori le sue punte personalistiche, i suoi pettegolezzi velenosi, le sue scarnificazioni sapienti, che sono non ultimo segno d’incapacità oltre che d’inguaribile cafonismo provinciale. Chi si salva? Appena appena i morti e quelli resi innocui dall’età. […] Ma quando arriviamo finalmente a parlar dei problemi di Taranto, non c’è più tempo e ci riduciamo a una elencazione sommaria. Questi problemi si chiamano il ponte, il bacino di carenaggio, l’ospedale civile, il raccordo ferroviario, il piano regolatore mai approvato, il risanamento della Città Vecchia, le scuole elementari e medie, l’oleodotto, infine l’Arsenale. Ma come risolvere questi problemi? E’ tardi, il professore di università ha fretta; se ne parlerà un’altra volta.»
Scavando un po’ più a fondo del dibattito pubblico locale, è possibile scorgere enormi novità che, nell’ultimo decennio, hanno trasformato radicalmente le amministrazioni comunali e la qualità del potere da loro esercitato. A Taranto e negli altri contesti attraversati da problemi strutturali e da un diffuso desiderio di alternative può essere particolarmente importante chiedersi quali siano le aspettative di cambiamento che è lecito riporre nelle mani delle amministrazioni locali.
Un dibattito di questo tipo può rappresentare un antidoto a una tentazione che, anche in riva allo Jonio, non è quasi mai disattesa: quella di accapigliarsi sui nomi di chi aspira ad indossare la fascia tricolore senza prestare sufficientemente attenzione allo scenario nel quale si sviluppa l’azione amministrativa.
Le lenti delle caratteristiche personali, della capacità e dell’efficienza della donna o dell’uomo che si candida a sindacə sono, infatti, categorie del tutto insufficienti per valutare le possibilità di una reale trasformazione di un territorio. Se si assume questa prospettiva, si comprende bene perché la parabola classica – emerge un volto nuovo, crea molte aspettative e riceve ampio consenso, inizia la sua avventura amministrativa, disattende le speranze e diventa bersaglio dell’opinione pubblica – non è il prodotto di un destino inevitabile ma è spesso conseguenza dei limiti strutturali dell’azione amministrativa locale.
Per restare al recente passato, Stefàno e Melucci sono stati eletti con diffuse aspettative e largamente identificati come portatori di novità. Successivamente, seguendo traiettorie diverse, sono implosi sul terreno dell’effettiva possibilità di intraprendere politiche significativamente diverse da chi ha preceduto. Allargando lo sguardo, un ragionamento sovrapponibile può essere sviluppato nei confronti dei sindaci arancioni, da Pisapia a De Magistris, o dei sindaci dell’ondata grillina nelle grandi città. Si tratta di esperienze tra di loro molto diverse, accomunate da un comune denominatore: la sottovalutazione diffusa della assoluta parzialità dei poteri di cui dispongono. Tra gli esempi citati soltanto De Magistris ha mostrato una maggior consapevolezza delle trasformazioni che hanno investito la macchina amministrativa e ha saputo sviluppare, in alcune fasi della sua amministrazione, un’alleanza con i movimenti della città per provare a mettere in tensione i limiti della sua azione e superarli.
- Un vortice di novità
Di quali limiti parliamo? Quali sono i dispositivi che hanno contribuito a spuntare le armi a disposizione degli amministratori locali? Ci sono due livelli di risposte formulabili. La prima è di carattere generale: la crisi della rappresentanza, cioè l’impossibilità da parte del ceto politico di rappresentare effettivamente gli elettori e le elettrici di un determinato territorio, è uno dei fattori chiave del presente. Il dato dell’astensionismo è eloquente. È una crisi di lungo corso, niente affatto determinata da ragioni soltanto locali o contingenti. La rivoluzione digitale e la correlata diffusione del desiderio di partecipare direttamente, senza mediazione, agli affari del mondo sono, tra gli altri, due elementi che hanno contribuito a determinare la frattura tra rappresentanti e rappresentati.
Nell’ambito della società fordista, fondata sulla catena di montaggio e l’operaio massa, la possibilità di farsi portavoce degli interessi diffusi era facilitata dalla tendenziale semplicità dei rapporti sociali e di produzione. I ceti proprietari erano efficacemente rappresentati dai partiti che ne curavano gli interessi, i ceti subalterni dai partiti di sinistra, dai sindacati, dalla galassia extraparlamentare e di movimento. Con la fine del paradigma fordista, le figure del lavoro (e della vita) sono estremamente più eterogenee, molteplici, diversificate. Anche da questa ragione nasce il diffuso bisogno di autorappresentarsi: dal punto di vista dell’impiego professionale, delle attitudini personali, dai desideri e bisogni, siamo molto più variegati rispetto ai nostri genitori e, quindi, molto meno rappresentabili.
Per quanto riguarda lo specifico contesto tarantino, gli ultimi quindici anni hanno creato le condizioni per l’attuale frattura tra elettori ed eletti. Schematizzando e semplificando, la prima candidatura di Ippazio Stefàno ha rappresentato una forte richiesta di cambiamento. Andava in scena lo scontro durissimo all’interno del centro-sinistra con Giovanni Florido e il conseguente ballottaggio. A pochi mesi dall’inizio del secondo mandato la magistratura sequestrava gli impianti inquinanti dell’ex ILVA. Tutto il secondo mandato di Stefàno si caratterizza per la mancata capacità di dialogare con il laboratorio politico cittadino che i movimenti ambientalisti nel frattempo erano stati in grado di costruire.
All’avvento del sindaco Melucci, che al primo turno conquista appena il 17,92% delle preferenze per poi affermarsi al ballottaggio, corrisponde la sostanziale crisi delle forze di movimento, che dopo anni di mobilitazioni molto partecipate non riescono a elaborare una proposta alternativa capace di affermare, anche con lo strumento della rappresentanza, un adeguato rapporto di forza. Il primo sintomo è l’astensionismo: al ballottaggio nel 2017 si recherà al voto soltanto il 32,87% degli elettori. Negli ultimi cinque anni si conclude una stagione di lotte a cui segue la frammentazione delle esperienze di attivismo ambientalista, con il conseguente assorbimento da parte della politica istituzionale di alcuni degli slogan e delle posture nate nei movimenti.
Questa parabola ha contribuito a determinare l’ampia frattura riscontrabile tra piazza e palazzo e il crollo diffuso della partecipazione al voto. Senza la spinta della partecipazione di chi abita e vive le città, dentro e oltre il momento delle elezioni, è molto facile che l’azione dei sindaci si impantani, schiacciata da altri poteri, ufficiali e non. La storia delle recenti amministrazioni tarantine è efficacemente leggibile con queste lenti.
- Quale capacità di spesa?
C’è un ulteriore elemento che contribuisce al pantano dei sindaci e delle giunte: l’effettiva impossibilità di sviluppare politiche sociali di qualche rilevanza quantitativa. “La capacità di spesa corrente è azzerata” dichiarava il sindaco di Napoli Manfredi quando, lo scorso maggio, aveva inizialmente rifiutato la candidatura. La condizione denunciata da Manfredi non riguarda soltanto la città che amministra: è una dimensione diffusa, quasi ordinaria, non solo al sud. Ancora una volta, a compromettere le possibilità di intraprendere azioni amministrative anche solo parzialmente redistributive non sono soltanto ragioni temporanee ed eccezionali, limitate a contesti specifici. Al contrario, la spesa degli amministratori locali è rigidamente limitata da strutturali vincoli di bilancio. Questa è una delle ragioni per le quali le promesse elettorali spesso sono rapidamente disattese, soprattutto nel campo delle politiche sociali.
Rispetto al tema della possibilità di spesa, Taranto sembrerebbe vivere una condizione temporaneamente diversa. A partire dal 2015 l’attuazione degli interventi necessari a riqualificare la città è disciplinata da uno specifico Contratto Istituzionale di Sviluppo, il cui soggetto attuatore è INVITALIA. Attraverso questo strumento, per tramite di vecchi e nuovi fondi, la città, secondo le parole dell’ex sindaco Rinaldo Melucci: «è ormai una stazione appaltante da un miliardo di euro». La cabina di regia di questo processo non appartiene esclusivamente al Comune di Taranto, che è tenuto a coordinarsi, attraverso un tavolo istituzionale, con MIC (ex MIBACT), Min. Difesa, MIT e Regione Puglia. Di fronte a investimenti raccontati come importanti, verrebbe da chiedersi: qual è il ruolo degli/delle abitanti all’interno di processi decisionali che possono avere un impatto importante sulla città?
Il tema della democrazia partecipativa non sembra essere nelle corde delle recenti amministrazioni. In aggiunta, le opere che investono la città sembrano carattere estemporaneo, non organico, in assenza della partecipazione di chi gli spazi urbani li vive e li rivendica. Ad esempio il rinnovamento dello stadio, che poteva rappresentare un momento di svolta nella progettazione partecipata di un pezzo di città, si rivela, nel migliore dei casi, una boutade propagandistica. Molti degli eventi organizzati con finalità partecipative, lontani dall’intercettare la diffusa partecipazione di chi è abitualmente escluso/a dai processi decisionali, sono sembrati più che altro la messa in scena della democrazia diretta, con la presenza costante di poche e selezionate persone.
Inoltre, dal punto di vista della capacità di spesa del Comune di Taranto, è necessario tenere presente che la fase che attraversiamo è eccezionale: la finestra degli investimenti è destinata chiudersi. E – tema di ancor maggiore rilievo – l’idea per la quale un corposo intervento economico sulla città abbia ricadute positive trasversali ai ceti che la compongono è un assunto indimostrato compiutamente neoliberista. Non esistono politiche – neanche di spesa pubblica – capaci, allo stesso tempo, di rispondere ai bisogni e ai desideri di chi sta in basso e di chi sta in alto nella gerarchia sociale. Esistono politiche per gli uni e politiche per gli altri. Viceversa, quando i finanziamenti ricadono a cascata su un territorio, senza che, dal punto di vista delle classi sociali, siano effettuate scelte strategiche, ad averne beneficio è sempre la classe dominante.
- Condannati al pantano?
In uno scenario di questo tipo, l’impossibilità di spesa o l’eterno sostegno alle classi egemoni è l’unico orizzonte possibile per le amministrazioni locali?
In alcune città europee sono in corso sperimentazioni interessanti che vanno in una direzione radicalmente diversa. Barcellona, ad esempio, è stata, negli ultimi anni, il simbolo di una possibile alleanza tra amministratori e abitanti. In moltissimi altri contesti con dimensioni, prospettive e proposte anche significativamente diverse, sono in corso sperimentazioni che, proprio a partire dalla crisi della rappresentanza, dalla puntuale comprensione dei limiti strutturali dell’azione amministrativa e dalla loro pubblica denuncia e messa in discussione, inquadrano il ruolo dei sindaci in un’altra maniera, ad esempio quella del megafono a disposizione delle comunità locali che si mobilitano nei confronti dei poteri nazionali e globali.
Un attimo prima di dividerci sulle preferenze che vorremmo esprimere nelle elezioni a venire – o sull’opportunità o meno di esercitare il diritto di voto – è tempo di sviluppare una discussione sulla qualità del potere effettivamente esercitabile da chi vince le elezioni locali. Il contesto in cui si sviluppano le comunali è profondamente cambiato. È indispensabile che cambino anche le coordinate con le quali discutiamo delle elezioni e dei limiti e delle potenzialità dei sindaci.
Araba Fenice
…la spesa delle amministrazioni comunali è limitata da vincoli strutturali e di bilancio….
Il postulato, correttamente espresso nell’articolo, è il presupposto su cui si fonda una possibile visione diversa.
Ma è il postulato in sé che ha i limiti di chi lo ritiene inevitabile e non ne comprende (in verità non le cerca) le origini.
Eppure la spiegazione è a portata di mano ed è rillustrata dal Mef, dalla Corte dei Conti e dallo Svimez, luoghi del pensiero che la classe politica di Taranto e non solo, non frequenta e che non trovano posto nel triste dibattito elettorale.
La spesa pubblica in Italia con cui vengono finanziati gli enti locali e la loro capacità di spesa -scrive la Corte dei Conti- è ripartita secondo il principio della “spesa storica ” che determina le diseguaglianze e che è all’origine del divario territoriale del Mezzogiorno.
Secondo tale principio vi sono comuni che storicamente ricevono più risorse perché spendono più.
Dunque vi sono comuni che continuano a ricevere maggiori risorse (dalla spesa pubblica nazionale) mentre comuni più poveri, senza ad es. asili, continuano a non essere finanziati.
Nel 2009 la Commissione sul federalismo presieduta da Giorgetti fu costretta a prendere atto di tale assurda ripartizione e fu approvata una norma che introduceva i Livelli Essenziali delle Prestazioni per garantire condizioni minime di prestazioni a tutti, ma ne differì la loro individuazione. E così siamo rimasti.
Sarebbe questo, a mio parere, necessario introdurre nel dibattito elettorale.
La consapevolezza delle ragioni che condannano alcuni territori ad avere meno spesa pubblica, meno spesa sociale, meno spesa sanitaria, meno trasporti pubblici, meno investimenti, ecc. , avrebbe il sapore rivoluzionario del riscatto sociale.
Le diseguaglianze che l’articolo sottolinea tra le classi dominanti e le altre sono circoscritte ad una visione più piccola, quella comunale, mentre a mio parere se si riguardano dall’alto di una visione nazionale , dove si forma la spesa pubblica, appaiono linee di intervento e prospettive diverse.
Che poi vi possa essere una visione sovranazionale lo sappiamo ma, al momento, è meglio lasciarla stare